MOSTARDA: un fantastico concentrato di “archeologia alimentare” sulle nostre tavole.
A cura di ERMANNO FURLANIS.
Il termine mostarda è in verità una denotazione di categoria più che un nome specifico per una salsa particolare: parlando di “mostarda” in una compagnia composta da un francese, da un “padano” e da un meridionale, ognuno dei nostri interlocutori capirebbe una cosa diversa, e anche il padano potrebbe avere una idea differente a seconda che venga da Piemonte dal Veneto o da una differente città della bassa lombarda!
Ma allora cos’è questa benedetta mostarda?
Per capire bene la questione parecchio variegata ed affascinante, è bene partire dal nome e dalla sua origine: Mostum ardens, il mosto che brucia!
Si trattava di una lavorazione dei mosti con semi piccanti o ardenti a seconda che si usi il seme della sinapis alba (senape bianca) o della brassica nigra (senape sera) piante della famiglia generosa e straordinaria dei broccoli (brassica in latino), quella a cui appartengono la colza, i cui fiori e semi ricordano da vicino quelli della senape, i cavoli e la rucola, pianta che ci mette sulla buona strada per capire le caratteristiche di bruciore della nostra salsa.
La salsa di mostarda più classica si faceva lasciando a bagno i semi ardenti/piccanti di queste due erbe e poi pestandoli nel mortaio con aggiunta di adeguate quantità di aceto o, appunto, di mosto; l’ agrodolce era un gusto molto apprezzato nelle tavole medievali che si è andato purtroppo perdendo a scapito del sale, nel gusto più recente. In questo modo si ottiene la “Moutarde” classica francese (di Digione) , che noi chiamiamo più precisamente “senape” che varia in piccantezza calibrando bene le due specie di semi e lasciandole più o meno a bagno per ottenere un gusto più o meno dolce. Nella versione a salsa la base è fatta esclusivamente da aceto.
Sono lavorazioni lunghe che sono state elaborate da chi aveva tempo passione e materia prima soprattutto, è uno dei contributi preziosi che sono stati tramandati dagli antichi monasteri, scrigni di conoscenza, accanto ai più noti e celebrati testi antichi, tramandatici dagli amanuensi.
Dalla preparazione originaria “arcaica”, semi pestati e mosto, (in tedesco la chiamerei Ur-mostarde) sono quindi discesi i tre rami principali:
1) la” moutarde” nella quale, come detto, il mosto è sostituito da aceto;
2) le mostarde meridionali dove il mosto, stabilizzato con cenere (Sali minerali che fermano la fermentazione), viene addensato con farine e cioccolato, e in questa categoria metterei anche i famosi “sughi” di Lugo di Romagna, mosto addensato che ha perso però la piccantezza;
3) finalmente le mostarde padane ove il mosto viene sostituito da frutta stabilizzata con zucchero e solo alla fine viene aggiunta l’essenza di senape che è un olio essenziale molto volatile potentissimo che racchiude in poche gocce il potere piccante di alcuni etti di semi. Si tratta di una preparazione talmente potente che può essere pericolosa e tossica e provocare gravi ustioni a pelle e soprattutto danni agli occhi e apparato respiratorio; per questo la sua distribuzione è riservata ancora oggi come nei tempi antichi agli “speziali” (farmacie!).
Tutte e tre le derivazioni della “Ur-mostarde”, hanno poi una miriade di differenti declinazioni a seconda del luogo ove sono state elaborate, degli usi e costumi e delle diverse disponibilità di materie prime.
La terza mostarda, quella a noi più familiare, ha le varianti locali più numerose:
1- vicentina. E’ a base di polpa di mela cotogna, che si ottiene dalla cottura della polpa con zucchero al 50% in peso. E’ quindi una marmellata; una volta raffreddata, si aggiunge olio essenziale di senape. Si usa anche farla con le pere;
2- mantovana. con mele cotogne, eventualmente anche con pere ma con frutti interi o a pezzettoni rispetto alla Vicentina; è usata come ingrediente nei tortelli di zucca nelle zone del mantovano;
3- cremonese. (forse la più nota e più bella da vedere!) si tratta di una miscela di frutta candita che poi viene conservata dentro uno sciroppo leggero bello chiaro con una percentuale di zucchero del 50-60%, cui viene aggiunto il potente olio essenziale di senape. Usualmente si utilizzano ciliegie, pere, mele cotogne, mandarini, fichi, albicocche, pesche;
4- mostarda di Voghera. miscela di frutta candita e sciroppo; il metodo era già diffuso tra i monaci prima del 1397 per conservare la frutta. In quell'anno infatti Gian Galeazzo Visconti scrisse una lettera al podestà di Voghera lodandone la bontà; prevalentemente preparata con mele a fette e candite rapidamente in tre o quattro giorni e lasciate nel loro sciroppo, più scuro e vischioso di quella di Cremona.
5- piemontese, o Cougnà. È una marmellata a base di mosto d'uva (barbera, uva fragola), e qui si torna alle origini, cui si aggiungono in cottura: mele cotogne (da cui il nome), pere madernassa (IGP di Cuneo), nocciole tostate. Viene usata per accompagnare le robiole e i formaggi stagionati in genere;
6- veneta. Altra confettura di frutta nella cui preparazione, oltre alla senape, vengono usati vino, e anche qui il ritorno alla origine seppur col vino che è fermentato e quindi ha perso le caratteristiche di mosto, e canditi, e qui ci si ricollega invece alla derivazione moderna della bassa lombarda. Tradizionalmente viene consumata con il mascarpone durante le feste invernali; E’ la versione più interessante perché sincretica, ovvero mantiene i caratteri di tutte e tre le derivazioni.
7- bolognese. confettura dal sapore asprigno a base di prugne, mele cotogne e frutta mista, tipico ripieno delle raviole e della pinza;
8- forlivese o romagnola. Dolce e leggermente piccante; alla frutta mista aggiunge tradizionalmente mele cotogne e prugne in prevalenza.
9- mostarda fina di Carpi. A base di mele carpigiane Gagliardine e arance, con miele, spezie e gocce di senape. Purtroppo questa particolare cultivar di mele è ormai introvabile.
Si noti come in quasi tutte queste preparazioni trionfi la mela cotogna, che è un frutto abbastanza negletto in altri ambiti alimentari. Si tratta di un frutto che ha un profumo straordinario e delicatissimo da crudo e veniva usato dalle nostre nonne (ancora ne serbo un vago ricordo personale) per profumare i panni mettendole nel cassetto. Ha una polpa molto dura, coriacea e quindi durava a lungo emanando il suo aroma ai panni, ma il consumo da crudo, come l’ altra frutta era impossibile. La sua marmellata invece risulta gradevole, più consistente delle altre e farinosa e diventa prelibata utilizzata nelle mostarde.
L’ uso delle mostarde in cucina era tradizionalmente riservato alle tavole dei ricchi e potenti, si accompagna infatti in modo naturale al piatto di gran lesso, accanto al cren e altre salse, alla carne in generale, cibo molto raro nelle tavole dei contadini e dei poveri in genere. Oggi se ne è fatta una riscoperta abbastanza generosa e si può consumare anche come detto con formaggi o anche per gola così com’è con il pane!
Ricordatevi quindi d’ ora in poi, quando vi rivolgerete a un barattolo di nobile mostarda di frutta, che si tratta di una vera e propria “conquista sociale”, vi state concedendo una salsa da principi e prelati!
Ermanno Furlanis
(sitografia: Wikipedia, cucinamedievale.it, vari ed eventuali)
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baci Mariateresa
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